Prima della vocazione? Prendere la vita sul serio

Qualche riflessione a sfondo vocazionale

Parlando di vocazioni, o di crisi delle vocazioni, solitamente ci si riferisce al terreno preparatorio all’interno del quale esse fioriscono, finendo per identificarlo con la fede, o la ricerca di Dio, o con questioni, comunque, riguardanti la spiritualità.

Tutto questo è vero, ma il discorso si può allargare e rendere più generale affermando, senza troppa paura di sbagliare, che il terreno dentro al quale una vocazione fiorisce consiste nella propensione a prendere la vita sul serio. Prendere la vita sul serio vuol dire considerarla preziosa, cercare di non sprecarla, tentare di spenderla nella maniera più proficua possibile. Detto in altri termini, impegnarsi.

Chi è disposto a porsi obiettivi, spendere energie, tentare, ritentare, costruire, abbattere e ri-edificare mette in moto un processo virtuoso che genera informazioni, crea esperienza, chiarisce le idee, definisce meglio le proprie aspettative. Chi vive intensamente, prima o poi trova qualcosa di importante. In prima battuta, questa “scoperta” potrebbe anche non coincidere con Dio, la fede o la vocazione. Ma, certamente, si tratterà di qualcosa di buono, o grande, o importante che, con queste cose, una qualche parentela ce l’ha.

Al contrario, chi sono coloro che paiono destinati a non trovar nulla, a rimanere perennemente insoddisfatti, al di qua del guado, sempre in balia di ripensamenti o tentennamenti? Sono coloro che non sono disposti a faticare, a osare, a pianificare un impegno. Chi, in altre parole, mette la moneta sotto terra per paura di perderla.

Il discorso, però, non è così lineare, semplice ed edificante come potrebbe sembrare in prima battuta.

Qualche giorno fa, al telegiornale, erano intervistati alcuni giovani che manifestavano a favore della salvaguardia dell’ambiente. A un giornalista, che domandava loro se non ritenessero più proficuo andare a lezione e studiare, anziché scendere per le strade con gli striscioni, un ragazzo rispondeva più o meno in questi termini: che senso ha studiare per costruirsi un futuro quando, nelle condizioni in cui versa il mondo attuale, probabilmente non c’è futuro?

In altri termini, potremmo dire, che senso ha impegnarsi, lavorare, far fatica, quando all’orizzonte non si intravedono prospettive? E’ un po’ come se ai giovani che si trovano di fronte ad un banco di nebbia che impedisce la visuale, si chiedesse, anziché stare fermi in attesa che la nebbia cali, di mettersi invece in viaggio e, anzi, li si incoraggiasse a schiacciare sull’acceleratore, magari col rischio di sfracellarsi.

Ma, anche in questo caso, l’analogia zoppica. Sarebbe corretta, se gli elementi in campo fossero solo questi: il viaggiatore e la nebbia. In realtà ve n’è un terzo, il vento (e stavolta, invece, il rimando allo Spirito Santo non zoppica affatto), che è pronto a soffiare via la nebbia non appena si accorge della buona volontà, della determinazione e del coraggio di chi, contro ogni apparente buon senso, decide di mettersi per strada comunque.

Fuor di metafora, forse la situazione giovanile di oggi può essere riesaminata in un’ottica differente. Certo, è necessario riconoscere che questa nebbia esiste, ed è anche parecchio fitta. Rispetto al passato, è vero, i ragazzi di oggi dispongono di molte più strade e mezzi per comprendere, imparare, viaggiare, ma, paradossalmente, scegliere la direzione è diventato più difficile, per non dire angosciante, col risultato che molti preferiscono star fermi in attesa di vedere se la situazione si chiarisce (il caso estremo è rappresentato dagli hikikomori, parola giapponese che designa coloro che si chiudono in una stanza e tagliano i contatti col mondo, eccettuato il tenue filo rappresentato dal Web e dalla tecnologia).

Invece, per mettere in moto il vento chiarificatore, bisogna che prima ci muoviamo noi. Tentando in buona fede, osando, intraprendendo. Magari, per esempio, un corso di studi impegnativo, che cerchi di coniugare le proprie attitudini con le richieste del mondo esterno. Magari, un periodo all’estero, che apre orizzonti, aumenta l’esperienza e permette di conoscere persone nuove. Magari, un percorso spirituale personale, che potrebbe anche diventare comunitario, per dare radici più solide alla nostra identità e verificare la tenuta dei valori in cui crediamo. Magari, un’esperienza di volontariato un po’ “estrema”, che facendoci uscire da noi stessi a vantaggio degli altri, ci aiuti a vedere in maniera un po’ più obiettiva e distaccata anche le nostre personali faccende.

Sembrerebbe troppo facile e semplicistico concludere col detto popolare “aiutati che il ciel t’aiuta”, per non andare sul più “pagano” “la fortuna aiuta gli audaci”. In realtà, la fortuna NON aiuta gli audaci. E’ Dio che li aiuta, attraverso lo Spirito Santo, facendo capire a ciascuno la sua Vocazione, cioè il suo posto nel mondo. Ma all’interno di un progetto che, con il Signore, in qualche maniera, c’entra sempre.

don Davide

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